Eccomi qua, come primo post della mia avventura di Momenti Ibridi vorrei postare i miei migliori album del 2009. Premetto che è una classifica totalmente personale, ed essendo io amante delle schitarrate di violenza sarò bannato dai miei compagni di post e sarò insultato dalla maggior parte dei visitatori del blog ma non fa niente!! Ah, non ho dato dei voti o delle posizioni perché non ho un album preferito o meno...andiamo ad elencare:
ANIMALS AS LEADERS
"Animals as Leaders"
Etichetta: Prosthetic Records
Ultimo entrato nella mia cdteca e ringrazio Santa per la piacevole illuminazione su questo progetto solista di Tosin Abasi (ex Reflux), chitarrista virtuoso ma con tanto gusto. Trattasi di un cd strumentale interamente arrangiato da Tosin, composto da 12 brani strumentali, ma non per questo si tratta di un cd per aspiranti shredder. Lo stile musicale rimanda ad atmosfere degne di un cd dei Meshuggah (Infatti per la batteria viene usato The Metal Foundry SDX, un pacchetto di synth di batteria per Superior Drummer 2.0 In cui vi è una serie di samples registrati da Thomas Haake, batterista dei Meshuggah) merito anche del suono della chitarra a 8 corde che qui viene utilizzata con grande maestria da Tosin. Infatti la chitarra non viene solamente utilizzata per creare un tappeto sonoro ma viene impiegata per parti solistiche veramente interessanti; difatti la differenza la fa la versatilità di Tosin, capace di alternare parti veramente cattive ad aperture melodiche inaspettate e non usuali. Appunto per questo il cd non è di difficile ascolto nonostante il livello tecnico delle esecuzioni rimanga molto elevato. Personalmente sono rimasto colpito dalla traccia di apertura del cd (Tempting Time) ma sorpreso all'ascolto della traccia N°4 (On Impulse): una ballad melodica ma non banale. In fin dei conti un bel cd per chi si diletta con virtuosismi ma anche per chi è amante dei pezzi mosh, difficilmente non vi verrà voglia di muovere la testa (ah, rigorosamente a tempo dispari!!!).
MASTODON
"Crack the Skye"
Etichetta: Relapse Records
Per chi non li conoscesse questi quattro ragazzi di Atlanta spaccano veramente i deretani!! Il loro metal fatto da un insieme di influenze che vanno dai Neurosis fino al progressive anni 70 nel 2009 hanno sfornato un album DELLA MADONNA!!! Con all'attivo già 3 album che ne sanno, nel 2009 hanno deciso di fare il botto, e che botto!!!
Con la supervisione di Brendan O'Brien (che ha prodotto di tutto, dai Pearl Jam agli Incubus) hanno prodotto il loro, a mio modesto parere, miglior disco della carriera. Lasciata da parte la vena viulenta dei loro precedenti lavori si sono concentrati sulla parte melodica del loro genere. Troy Sanders ha abbandonato il cantato simil-growl e in quest'album si dedica al pulito supportato dal batterista Brann Dailor mentre alla voce sporca ci pensa il chitarrista/boscaiolo Brent Hinds. L'album si apre con l'epica Oblivion dove l'influenza del progressiva si sente sin dall'intro e riemerge nel ritornello e nell'assolo. La seconda traccia, Divinations, si apre con il banjo che trae in inganno l'ascoltatore, lasciando subito posto alla chitarra distorta che ci porta in una spirale di violenza sonora tipica delle prime produzioni del quartetto di Atlanta. Poi nell'album si susseguono episodi che spaziano tra il trash e lo sludge metal tipico dei Neurosis e Melvins. Mai ripetitivi sin dalle copertine dei cd (che lasciano trasparire i concetti che stanno dietro ad ogni produzione: Leviathan = Acqua; Blood Mountain = Terra; Crack the Skye = Cielo) i Mastodon sanno rinnovarsi in ogni cd, aggiungendo quel tocco di originalità che ultimamente nel mondo del rock sembra mancare... In attesa del 4°elemento consiglio di andarli a vedere il 4 di febbraio, quando questi quattro spaccheranno il cielo (e non solo) di Milano.
BARONESS
"Blue Album"
Etichetta: Relapse Records
Preso a scatola chiusa (ipnotizzato dalla copertina e da un paio di pezzi sentiti sul myspace) posso dire che mai acquisto fu più azzeccato di questo, acclamato dalle riviste del settore come il più bell'album del 2009, posso dire che questo è un cd PAUROSO (nel senso buono) !!!!!!
Questi 4 ragazzi di Savannah sanno fare veramente del buon rock e ve lo fanno sentire!!!!! Con il loro genere che si ispira al metal ma strizza l'occhio allo stoner dei Queens of the Stone Age e al punk vecchio stile, questi signori non hanno tradito le aspettative di chi li ha conosciuti con il Red Album del 2007 e hanno sfornato questo LP veramente eccezionale!! Voce roca e potente, chitarre pesanti e ritmiche violente fanno si che questi quattro trasmettano la loro passione nel fare musica all'ascoltatore e lo fanno capire dal primo all'ultimo brano. Il cd è composto da 12 pezzi che alternano sfurriate di chitarra elettrica a eleganti brani acustici, e nessuno è mai banale; ascoltatevi A Horse Called Golgotha o The Sweetest Curse per ascoltare quanta energia vi è in questo gruppo, oppure Steel That Sleep the Eye per rimanere colpiti dalla versatilità dei Baroness. Un consiglio spassionato per ogni feticista dell'originale: andate a comprare i cd originali di questo gruppo, per 2 semplici ragioni: primo per supportare i nuovi gruppi (e questo merita) e secondo per godere appieno delle splendide copertine che il chitarrista/cantante disegna personalmente.
PEARL JAM
"Backspacer"
Etichetta: Monkeywrench/Universal
Beh, cosa dire...chi non conosce i Pearl Jam? Ogni essere umano pensante e con un po' di passione per la buona musica ha almeno una volta nella vita avuto come colonna sonora di un particolare momento una canzone dei Pearl Jam? chi non riconosce ad orecchio la voce di Eddie Vedder, o la chitarra di Stone Gossard o di Mike Mccready? Dai tempi di Ten che il quintetto di Seattle ci delizia con album che sono delle piccole gemme, mai un qualcosa di fuori posto o risentito, mai un'armonia banale o un brano al di sotto della media, ma non siamo qui per parlare della biografia della band...
Dopo 3 anni di attesa ecco qui l'ultima fatica della band di Seattle, un cd secco, asciutto, fatto per suonare in situazioni live e con dentro tanta energia da fare invidia ai gruppi sopracitati. Infatti questi splendidi 40enni (se non anche di più) hanno fatto un cd veramente rock, ascoltandolo sembra di ritornare indietro nel tempo, quasi ai momenti in cui fecero uscire Vs di cui questo cd sembra il successore. Un cd da poco più di mezz'ora ma con tanta intensità e diciamo anche un po' di solarità. Unica pecca forse la data di uscita: il 18 di settembre, ormai sul finire dell'estate, perche da quest'album si potevano estrarre benissimo canzoni che potevano essere delle colonne sonore per la bella stagione; già il singolo che ha anticipato l'uscita, The Fixer, riporta alla mente immagini di spiaggia, surf e California; uguale il richiamo in Amongst the Waves, ottima colonna sonora in un viaggio in auto, magari avendo come meta l'oceano...non manca poi la ballata, Just Breathe, che a detta di Eddie Vedder :"E' la cosa più vicino ad una canzone d'amore che io abbia mai scritto", c'è poi Johnny Guitar, pezzo dedicato all'amico Johnny Ramone, scomparso nel 2004, Il resto del cd si compone di tracce rock di grandissimo carattere, come d'altra parte i Pearl Jam ci hanno abituato in questi anni, ma in questo caso senza troppe sperimentazioni sonore, solo chitarra, basso, batteria, voce e poco altro in più. La produzione dell'album è stata affidata a Brendan O'Brien ormai diventato una specie di "produttore personale" dei Pearl Jam. Anche in questo caso consiglio l'acquisto del cd originale, che contiene una traccia CD-Rom con il link per poter scaricare gratuitamente 2 interi concerti della band in formato mp3 da una lunga lista di date , e vi garantisco che ascoltare un live dei Pearl jam è un'esperienza da brividi, sperando che in questo 2010 facciano una capatina anche in Italia...
LES CLAYPOOL
"Of Fungi and Foe"
Etichetta: Prawn Song
Chi non ha mai sentito parlare dei Primus? Rinfreschiamoci la memoria: Storica band dell'underground californiano attivi dal 1989, capaci di fondere il metal e il funk in uno stile eclettico e unico denominato Psychedelic Polka ed essere autori di canzoni tipo My Name is Mud o Shake Hands with Beef ed essere i precursori del Nu-Metal...Forse i più giovani li avranno sentiti nella sigla d'apertura del cartone animato South Park...ecco, vi state ricordando? Bene, qui di fianco è raffigurata la copertina del 2°cd del Bassista/mente dei Primus: Les Claypool.
Già conosciuto per le sue doti di bassista e per i suoi millanta progetti paralleli (Tra cui spicca il progetto Oysterhead Assieme al chitarrista dei Phish Trey Anastasio e a nientepopodimeno che Steward Copeland dei Police) in questo cd abbandona le atmosfere funk e si dedica alla sperimentazione. Si, in effetti questo cd si distacca molto dal primo lavoro solista di Les Claypool, qui si possono trovare atmosfere tipiche di un lavoro di Tom Waits (strumenti vari e casuali), folk, ma tutto in stile comico-demenziale tipico dei testi di Claypool.
La prima canzone, Mushroom Men, è stata scritta da Les per un videogioco in cui un meteorite cade sulla terra e dona intelligenza ai funghi...ditemi voi cosa ci si può aspettare da un uomo cosi!!! Poi in questo album aumenta la serie di strumenti strambi suonati da Les: dopo il Wamhola e il bass banjo ecco che si aggiunge il bass dobro...un basso con risuonatore resofonico...insomma, avete presente la chitarra con lo scolapasta al posto della buca? Ecco, fatela diventare un basso!!! Geniale no? O semplicemente fuori di testa? Boh...
Testi demenziali, musica stramba, suonata con strumenti incomprensibili ma fatta bene!! Una marchio di fabbrica è la voce "particolare" Les Claypool e la maestria con cui suona i vari strumenti sopracitati, poi quando si mette in coppia con Heugene Hutz, cantante/cantautore dei Gogol Bordello, la festa si scatena!!! Infatti con la loro Bite Out of Life difficilmente non muoverete la testa o il culo!!! Ed anche qui se volete saperne di più, l'11 marzo Les Claypool terrà un concerto all'Alcatraz di Milano, quindi se siete incuriositi da quest'artista consiglio vivamente la presenza a quest'evento!!!
ZU
"Carboniferous"
Etichetta: Ipecac Recordings
Sperimentazione estrema, noise, jazz-core,math-jazz; qiesti sono i generi affiancati agli Zu, band romana composta da un'originale line-up: batteria, basso e sax baritono. Qui si parla di un gruppo storico dell'underground romano, ormai attivi da più di un decennio, vantano collaborazioni con artisti di tutto il mondo: da Mike Patton ( che gli ha portati in tour mondiale e che li ha messi sotto contratto con la sua etichetta) a Geoff Farina (ex Karate, nel progetto Ardecore) , 12 cd e apprezzamenti da musicisti del calibro di John Zorn (il quale ha detto di loro: "Avete creato una musica potente ed espressiva che spazza via totalmente ciò che molti gruppi fanno in questi giorni!"). Ma veniamo all'album: 10 brani di materia oscura, viscerale, in alcuni tratti claustrofobica, che il terzetto romano manipola creando mille sfumature di nero...Album reso più interessante dalle collaborazioni di Mike Patton e Buzz Osborne (Melvins) che aggiungono pregio a questo cd.
La batteria irregolare, un uso forte del basso e del sax effettati creano delle sonorità che di primo impatto risultano potenti, ma ascoltando più attentamente si possono sentire grandi capacità tecniche da parte di ogni singolo musicista. Il cd si apre con "Ostia", brano veloce, diciamo quasi "da rave" nonostante i toni cupi...io consiglio "Chthonian", impreziosita dalla presenza alla chitarra di Buzz Osborne, "Beata Viscera" con il tappeto ritmico di chitarra e basso veramente imponente, "Soulympics" con Mike Patton alla voce. La genialità di questo terzetto però, oltre che nel cd, viene espresso meglio nei live dove il livello tecnico dei singoli musicisti viene esponenzialmente elevato...sono rimasto colpito dalla precisioni dagli stacchi, dalla potenza dei suoni, dalla precisione metrica dei musicisti. Mai uno stop sbagliato, un'imprecisione a livello di tempo o una mancanza di omogeneità durante l'esecuzione del brano...semplicemente perfetti...consiglio a chiunque di andarli a vedere, non ne resterà deluso...Per concludere, un cd più sobrio degli altri ma ciononostante un prodotto assolutamente di una qualità ineccepibile...per chi vuole prendere un treno in faccia ed essere felice (metaforicamente parlando)!!!
Enjoy e buon 2010...
Pablo
venerdì 8 gennaio 2010
mercoledì 6 gennaio 2010
a year in the past, forever in the future
Folks, scusate l'attesa. Le feste sono state difficili per tutti, ma finamente ecco la nostra classifica dei 20 (venti!) migliori dischi del 2009. E' stato uno sbattimento immane, ma con la giusta calma si fa tutto.
PS. e se beccate la citazione del titolo del post vincete una foto del Suy nudo.
enjoy,
fede
20. Shook Ones - The Unquotable A.M.H.
Label: Paper and Plastick
Gli Shook Ones mi sono arrivati addosso nel 2009 come un ciclista accecato dal sole mentre cazzeggiavo sulla pista ciclabile. Nonostante il nome mi fosse noto non li avevo mai degnati di particolare attenzione fino a poco tempo fa, quando spinto dalla curiosità mi apprestai ad ascoltare il loro recente disco. E ne rimasi colpito. Hardcore melodico emozionale e fottutamente catchy: niente di nuovo direte voi, e ne sarete ancora più convinti quando sentirete la voce del cantante Scott Freeman, che ricorda in maniera impressionante quella dei vari Jason Shevchuk e Ari Katz, nomi influenti che tutt'ora arrizzano il pisello ad artisti ben più creativi. Però mentre lo starete pensando il vostro piedino sarà già partito, e la voglia di passare alla traccia dopo sarà già sparita come l'odore di un peto in una giornata ventosa. Niente da fare, sarà già sentito ma io lo trovo terribilmente end of the 2000s: dopo la sbornia di vino e miele che ha trasformato in questo decennio la melodia in un feticcio ormai privo di un qualsiasi valore aggiunto e la potenza del punk hardcore in una struttura preconfezionata replicabile all'infinito, The Unquotable A.M.H. è un ottimo esempio di cosa può essere la musica adolescenziale a fine decennio: citazionismo (più o meno moderato), personalità, velocità, melodia, urgenza. Senza bisogno di cagare fuori dalla tazza.
19. Manchester Orchestra - Mean Everything To Nothing
Label: Favorite Gentlemen/Canvasbac
Per apprezzare i Manchester Orchestra bisogna togliersi dalla testa questa storia secondo la quale tali giovanissimi bifolchi della Georgia sarebbero gli eredi dei Brand New. Uno, i Brand New non hanno bisogno di eredi, sono vivi e in ottima forma, e li incontreremo più avanti. Due, se vi portate a letto una ragazza spacciandovi per eredi di John Holmes, avrete un bel da fare per non deluderla. E probabilmente non ci riuscirete. Ora, una bella masturbazione mentale di gruppo sul perché codeste due band dovrebbero essere imparentate o meno sarebbe interessantissima per una serata invernale con stereo e fumo in abbondanza, ma ora vediamo di considerare il valore di Mean Everything To Nothing by itself: questo disco è il rock alternativo di fine decennio in una delle sue forme più pure e caratteristiche. Addentratevici se vi capita, magari durante un bel viaggio in macchina, e ci troverete tutto ciò che serve: post-grunge, power pop, rock radiofonico, rock progressivo, ritornelli cantabilissimi e momenti acustici più intimisti, individualismo ego-centrato, ossessione per la religione. Tutto ciò che è scaturito dalla produzione culturale di questo decennio ha lasciato un segno a modo suo nei suoni e nelle liriche di questi giovani figli dello zio Sam. Inoltre il cantante Andy Hull ha 23 anni ma sembra già un country-rocker consumato, con tanto di barba alla Gesù. Il prossimo decennio potremmo sentir parlare spesso di loro.
18. The Pains Of Being Pure At Heart - The Pains Of Being Pure At Heart
Label: Slumberland
Nel 2009 ho avuto il piacere di vedere New York. Non ricordo quando incominciai a provare la curiosità morbosa che ho sempre avuto per quella città, ma in questo strano 2009 mi sono finalmente tolto lo sfizio. E sticazzi, direte voi, mica ci devi raccontare le tue vacanze - anche perché se leggete momentiibridi vuol dire che siete amici miei, e quindi sapete già tutto. Ma niente paura, questo preludio condurrà ai TPOBPAH in modo tanto lineare quanto il vivere da soli conduce a pessime abitudini alimentari. Durante uno degli ultimi pomeriggi cittadini, mentre passeggiavo per Williamsburg, il quartiere coooool di Brooklyn dove i poser indie se la godono come bambini in un luna park, entrai in un negozio di dischi. No, non comprai il disco oggetto della recensione, non sarebbe una storia realistica trattandosi di me. Invece intascai una rivista gratuita chiamata The L Magazine. In prima pagina il titolo 8 NYC bands you need to hear - the 2009 edition. Gruppi interessanti, non c'è che dire. A Pagina 34 poi c'era la sezione "che fine hanno fatto quelli del 2008?" Bé, il nome che più mi incuriosì tra questi era The Pains Of Being Pure At Heart. Tornai a casa e scaricai allegramente. E ora eccoci qui: indie pop allegro, adatto a scaldare il cuore nonostante l'impronta decisamente shoegaze comunichi una freddezza metropolitana che ricorda le migliori serate invernali passate ascoltando i My Bloody Valentine. Canzonette, ma quando le giornate inizieranno ad allungarsi sarà un piacere gustarsi gli ultimi tramonti invernali tra le cime dei palazzi ascoltando questo disco.
17. The Dangerous Summer - Reach for the Sun
Label: Hopeless
Ok, probabilmente il fatto di includere questo disco tra i preferiti del 2009 farà abbassare la mia credibilità come critico di almeno un paio di migliaia di punti. Parliamone subito: i Dangerous Summer sono il classico gruppo rock da limone duro in spiaggia con il tramonto e le stelle e le onde e quelli che giocano a beach volley e tutto quello che ci volete mettere. Qui non c'è punk, hardcore, indie, rock alternativo. Ci sono una manciata di canzoni le cui melodie sono finalizzate a ricordare quei 3-4 mesi all'anno in cui per questioni meteorologiche l'umore migliora, il carattere si fa propositivo, il desiderio sale, e tutti ci improvvisiamo poeti mancati. Ecco, se vogliamo focalizzare la differenza tra i Dangerous Summer e altre decine di gruppi, specialmente pop-punk, specialmente americani, che ogni anno si imbarcano nell'impresa di scrivere la colonna sonora per lo spring break, dobbiamo prenderli per quello che sono: un gruppo rock, senza prefissi o suffissi, che per motivi propri ha deciso di mixare lo stile degli ultimi Starting Line (i migliori) con alcune atmosfere da summer hit a cui probabilmente sarebbero voluti arrivare i Goo Goo Dolls se solo quel belloccio del cantante avesse ricevuto un'ispirazione decente in vita sua. Pensate quello che volete su attitudine e ribellione nella musica, ma se almeno una volta nella vita avete avuto una ragazza del mare, ascoltare questo disco vi farà ripensare a lei. Anche se non vi ricordate più neanche com'era fatta. Musica epica per bianchi medio-borghesi.
16. The Bomb - Speed Is Everything
Label: No Idea
Questo disco è così soddisfacente che quando è finito, invece di ascoltare qualcos'altro, ti viene voglia di ascoltarlo da capo. E non è che sia così normale, oggigiorno. Di solito capita per gli album geniali o per quelli molto vari. In questo caso siamo di fronte a un album così vario da diventare geniale. Per dire, questi qui ti piazzano una di fianco all'altra una canzone punk greve e cazzona alla SNFU (Haver) e una ballatona mid-tempo indie rock con tanto di delay e coretti ruffiani che non sfigurerebbe sulla playlist di una serata MTV Brand New. E subito dopo un'altra song veloce e abrasiva come Integrity. E così via. Dovete ascoltarlo tutto questo disco, per capire che cacchio di genere fanno i The Bomb. E comunque non lo capirete. Canzoni punk melodiche e accattivanti, canzoni rock alternativo ispirate e ben arrangiate. Naturalmente in tutto ciò la voglia di andare oltre ai suoni tipici del punk che caratterizza molti dischi della No Idea è perfettamente rappresentata, solo espressa in modo più frammentato; tuttavia, questo è post-punk al 100%. E come con ogni definizione data per differenza, conosciamo il punto di partenza ma non quello di arrivo. Vedremo quale sarà il prossimo passo dei quattro di Chicago, nel frattempo gustiamoci questa perla di musica di fine decennio.
15. Frank Turner - Poetry Of The Deed
Label: Epitaph
Inizialmente non volevo mettere questo nuovo disco di Frank Turner nella classifica dei migliori dell'anno, per alcuni motivi: prima di tutto, considero il precedente Love, Ire and Song (2008) decisamente migliore, e quando l'aspettativa è così alta è facile rimanere delusi. Inoltre, e questo secondo punto è riconducibile al primo, il Frank Turner "chitarra e voce" ha un qualcosa in più che il Frank Turner "con la band" lascia inevitabilmente indietro. Non fraintendetemi, gli arrangiamenti strumentali di Poetry Of The Deed sono ottimi, e comunque i momenti acustici non mancano. Però l'immagine del vecchio (sticazzi, ha solo sei mesi in più di me) rocker inglese in piedi con l'acustica al collo e la fronte imperlata di sudore mentre sforza la voce per raggiungere la nota, è l'immagine perfetta del folk-singer figlio del punk rock che caratterizzerà il prossimo decennio, almeno all'inizio. E qui scatta il motivo per cui sarebbe stato ingiusto escludere questo disco da quelli più significativi dell'anno passato: il 2009, in un modo o nell'altro, è stato l'anno di Frank Turner. Lo è stato per me, che l'ho visto per la prima volta dal vivo in apertura ai Gaslight Anthem. Lo è stato per gli orgcore kids americani, per i quali apprezzare un artista proveniente da una terra fuori dell'impero dev'essere stato tanto strano quanto comprare un'auto russa. Lo è stato per la Epitaph, che accaparrandoselo ha alzato la scarsissima media delle sue più recenti produzioni (non esente da outliers, vedi qualche posizione sotto). Lo è stato per Frank Turner himself, che se la dev'essere sciallata mica male in tour praticamente per tutto l'anno. Detto questo, Poetry Of The Deed è un solido disco folk-rock cantautorale, con almeno un capolavoro di canzone (Try this at home) e diversi esempi di eccellente songwriting. Manca giusto l'urgenza dei primi lavori, ma questa frase è troppo da critico per essere stata scritta da me.
14. Bat For Lashes - Two Suns
Label: Parlophone
Ci ho messo un po' a capire questo disco dei Bat For Lashes. Mi fu regalato da una mia amica a settembre, subito prima che partissi per l'ignoto. E l'impressione durante i primi ascolti fu proprio questa: qualcosa di sconosciuto. Tuttavia, se all'inizio questo disco può sembrare estraniante, una volta familiarizzato con la voce dell'affascinante Natasha Khan (impresa difficile per me, abituato a urlacci mascolini, ma certamente più facile se in vita vostra avete apprezzato Kate Bush o Tori Amos) sarà dura non percepire la bellezza di questa opera. Indie-pop raffinato, dalle atmosfere a tratti orientaleggianti, dove piano e tastiere completano il lavoro della voce portante, la quale già da sola sarebbe comunque in grado di sedurre l'ascoltatore più spigoloso e di guidare il suo viaggio nell'ignoto. E una canzone, Daniel, che da sola vale il download di tutto l'album (non parlo di acquisto perché sarebbe ipocrita da parte mia). Da ascoltare sotto le stelle. Grazie Maria.
13. Polar Bear Club - Chasing Hamburg
Label: Bridge Nine
I Polar Bear Club sono un gruppo ciccione. Lo sono i loro riff di chitarra grassi e oleosi, lo sono le ritmiche lente e potenti come il passo di un brontosauro, lo è la voce del cantante Jimmy Stadt, che per quanto giovane e magro, nel suo ispirarsi a Chuck Ragan finisce per far venire in mente un camionista grosso e barbuto - o almeno così era come lo immaginavo io prima di averlo visto. Prendete See the wind, la prima e più potente canzone del disco: ritmica lenta e cadenzata, riff di chitarra che saltellano su note basse senza rinunciare a intelligenti arpeggi d'accompagnamento alle aperture, voce assolutamente ruvida e graffiante che sa essere melodica pur senza perdere la credibilità da duro. E alla fine ci piazzano pure un bel breakdown, per ricordarci che in fondo siamo a fine decennio e il post-hardcore è la tendenza del momento. Come inizio non c'è male. Da qui in poi prende il via un disco godibilissimo, potente e ricco di strizzate d'occhio melodiche, più accessibile dei precedenti lavori della band senza tuttavia rinunciare a una buona fattura compositiva, ad arrangiamenti accattivanti, e a quella vena emo-core che è forse il segno più chiaro del riferimento agli Hot Water Music che i quattro di Syracuse (ah, questi siciliani) hanno deciso di mantenere latente all'interno della loro musica. Assolutamente da avere se vi piace il punk-rock. Da non disdegnare se preferite altri generi: potreste scoprirvi a muovere la testa dopo dieci secondi dalla pressione del tasto play.
12. Converge - Axe To Fall
Label: Epitaph
Ho visto i Converge per la prima e unica volta in vita mia nel 2008, in una calda e appiccicosa nottata milanese. Naturalmente li conoscevo già da tempo: è ben difficile che i Converge passino inosservati a chiunque apprezzi un minimo la musica dura. Ma dopo aver visto un loro concerto, l'impressione che ebbi era che non avevo mai capito niente di loro fino a quel momento. Dopo aver visto Jacob Bannon vagare per il palco come un'anima tormentata che ha quasi paura di quello che sta facendo, e dopo averlo visto trasformarsi nella catarsi in persona, piegandosi in due e vomitando le sue angosce sul pubblico con una voce che ha di demoniaco, posso dire di capire molto meglio il senso della musica dei Converge. Ovvio, in Axe To Fall, come ulteriore esempio di capolavoro post-hardcore metallico dei giorni nostri, non c'è solo la suo voce: c'è anche il drumming veloce, serrato e implacabile a opera di Ben Koller, che in questa occasione pare anche più grindoso del solito, e naturalmente ci sono i riff storti di Kurt Ballou, una delle cose che bramo con più curiosità quando mi appresto ad ascoltare un nuovo disco dei bostoniani. Se siete tra quelli che fanno colazione ascoltando i Dillinger Escape Plan, probabilmente apprezzerete questo album come il precedente No Heroes (2006), tuttavia riconoscendogli l'impossibilità di superare il seminale Jane Doe (2001). Se non siete particolarmente avvezzi a questo genere musicale, che è tutto tranne che accessibile, preparatevi alla massima espressione musicale del malessere interiore. Fatelo vostro, cogliete il suo senso profondo, e la catarsi arriverà e sarà bellissima.
11. Daitro - Y
Label: Purepainsugar
Conosco i Daitro dai tempi di Laissez Vivre Les Squelettes (2005), e ricordo ancora quando, conoscendo il mio atteggiamento nei confronti della lingua francese e dello screamo, non mi sarei mai aspettato di diventare un loro estimatore. Evidentemente, siamo di fronte a un caso in cui l'unione delle parti è superiore alla loro semplice somma. Anche perché lo screamo francese si sta ormai delineando come sottogenere a sé stante, ulteriore conferma di come gli europei abbiano parecchio da dire, quando evitano di copiare dagli americani. In ogni caso, anche quest'anno i Daitro sono stati capaci di soddisfarmi: Y è un gran bel disco emocore, dove le urla sono funzionali al contesto, ma sanno cedere il passo quando necessario ad ampie cavalcate post-rock strumentali e addirittura a momenti in cui compare il cantato melodico (a differenza del precedente lavoro, dove lo scream era l'unica forma possibile). Il mood del disco comunque è proprio come lo volevo, ovvero alternanza di sound caotico e temporalesco e momenti più rilassati: dieci nuove perle di stream of consciousness emozionale da ascoltare in una giornata piovosa. Assolutamente imperdibile. Poi vabbé, a me 'ste intellettualate del tipo canzoni senza titoli (in questo caso titoli come part I, part II, ecc.) stanno un po' sulle palle. I titoli in francese avrebbero certo avuto un fascino maggiore.
10. Biffy Clyro - Only Revolutions
Label: 14th Floor
Il disco dei Biffy Clyro è uscito a novembre ma sarebbe dovuto uscire ad aprile. Poco male, mi accompagnerà nella primavera del 2010. Un disco power pop epico e non ruffiano, infarcito di melodie belle e semplici, arrangiamenti strumentali che sanno complicarsi nei momenti giusti senza comunque perdere l'immediatezza su cui si appoggia ogni canzone. Un disco che prende subito, ma che non stanca in fretta come molti altri. Mi verrebbe da definirlo power pop adulto: non il solito pastone ultra-melodico per teenegers, ma musica suonata da gente con le palle che più che sorprendere ragazzini imberbi vuole intrigare l'ascoltatore che è disposto a lasciarsi trasportare ovunque questi scozzesi abbiano in mente di andare. E non sarà un viaggio breve, comunque. Andate ad ascoltarvi il più recente singolo, nonché prima traccia del disco, The Captain, e ditemi se non vi è venuta voglia di sapere cosa c'è dopo. E comunque pochi cazzi: gli Europei sono più sobri degli Americani. Anche quando si mettono a fare un disco da house party come questo.
9. port-royal - Dying In Time
Label: n5MD/debruit&desilence/Sleeping Star/Isound Labels
Questo è il primo disco italiano nella mia classifica dei dischi migliori del 2009. E se conoscete i port-royal, penserete subito che non c'entra un cazzo né con buona parte di generi musicali di cui abbiamo parlato fino a ora, né con quelli che chi mi conosce sa essere i miei gusti musicali. Ma come si fa a ignorare un disco del genere, anche se non dovessi avere gli elementi necessari per capire questo tipo di musica? Sarebbe stato un errore non fare nemmeno uno sforzo per essere obiettivi, sarebbe stato come fare del male a me stesso rinunciare a questi settanta e passa minuti di tuffo in un mondo sonoro assolutamente affascinante. Mi sono lanciato, e sono felice di averlo fatto. Inoltre ho imparato qualcosa di nuovo: perché i port-royal sono effettivamente una delle migliori band che il nostro paese ha da offrire alla scena internazionale. Tecnicamente, ci muoviamo sui territori dell'elettronica ambient, qualcosa che inizialmente ricorda le atmosfere di un certo chill-out mediterraneo la cui più genuina espressione da me conosciuta sta nelle compilation del Café del Mar (per dire). Però c'è anche altro: qualcuno parla di Sigur Ros, qualcun altro di Mogwai. Due nomi che dicono post-rock, due facce di una ricerca sonora fatta di atmosfere rarefatte e sognatrici, lunghe suite al limite della musica classica, momenti epici. I port-royal sanno integrare alla grande questi elementi in una solida esperienza elettronica, senza rinunciare a un italico tocco di dance che affiora in più parti. Music to make love with.
8. Sophia - There Are No Goodbyes
Label: The Flower Shop Recordings/City Slang/Bang!
I Sophia sono un gruppo Inglese composto essenzialmente da due parti: il cantautore Robin Proper-Sheppard, che si può definire a tutti gli effetti il fulcro compositivo attorno a cui ruota la musica della band, e il cosiddetto Sophia Collective, ovvero un gruppo dalla composizione e dimensione variabile di musicisti volenterosi che collaborano con lui nel produrre dischi che mi sentirei di classificare come indie-rock solamente perché non saprei come altro descriverli. In sostanza, siamo di fronte a dieci canzoni tranquille e malinconiche, perfette per quei momenti dell'anno/della vita in cui per un motivo o per un altro si tirano le somme: se la vostra vita fosse un film, probabilmente in quella parte in cui siete seduti sul portico e guardate un punto indefinito dell'orizzonte ci sarebbe una canzone di questo disco come colonna sonora. Un altro modo per descriverlo è intimo: nessuna epica narrativa, solo il momento in cui si condivide tutto e lo si fa faccia a faccia. Questo strano 2009 ha portato momenti belli e meno belli per ciascuno, e ripercorrerli ascoltando il disco dei Sophia è un buon modo per cullare i nostri ricordi prendendo la regia della nostra stessa vita, e vederli sfumare con sincera nostalgia. Naturalmente non c'è niente di concitato e caotico qui: solo un dolce slowcore sussurrato e riverberato, con archi e piano a impreziosire l'atmosfera e una voce femminile che a volte compare ad aggiungere ulteriore leggerezza. Music to fall asleep with.
7. Chuck Ragan - Gold Country
Label: SideOneDummy
Il cantante di un influente gruppo punk-rock-emo-core scioltosi e recentemente riformatosi, che attualmente attira consensi sia da parte di trentenni nostalgici che di neo-maggiorenni che si comportano come se fossero fan di vecchia data, ha fatto uscire un nuovo disco country-acoustic da solista. No, non sto parlando di Matt Pryor, anche se aspetto con ansia un nuovo disco dei New Amsterdams (magari migliore dell'ultimo). Lo stile cantautorale di Chuck Ragan è piuttosto (e ovviamente, direte voi) legato a quello che erano gli Hot Water Music: il punk è ben presente negli energici riff di chitarra e nella voce graffiante che è diventata un marchio di fabbrica imitatissimo, impossibile da ignorare nel 2009. E nonostante la veste acoustic-folk alleggerisca i toni, l'up-tempo rimane comunque la regola; quando questa viene infranta, ci troviamo di fronte a ulteriori perle di cantautorato sincero, americanissimo, che richiama alle atmosfere rurali a cui il genere ci ha abituato, senza forzare troppo la mano. Ogni singola traccia di Gold Country varrebbe da sola la presenza nella colonna sonora della vostra vita. Il vecchio Chuck è un uomo di mondo, e lo sa. Per questo troverete qui dentro momenti adatti per ogni stato d'animo, a volte ben separati, a volte uniti in un susseguirsi di episodi che solo le grandi storie sanno offrire. Ascoltate questo disco quando partite per un lungo viaggio, vi porterà fortuna e saggezza.
6. Propagandhi - Supporting Caste
Label: Smalltown/Hassle/Rude
Il disco dei Propagandhi è una figata assoluta. Ci sono varie scuole di pensiero riguardo ai canadesi, c'è chi dice che erano meglio prima quando facevano hardcore melodico di scuola anni '90, molto più classico e meno metalloso (ma pur sempre avanti), e c'è chi invece si eiacula in mano ogni volta che esce un loro nuovo disco, a volte ancor prima di averlo ascoltato. Io personalmente metto le metallarate in secondo piano (anche se parecchi momenti sono fottutamente esaltanti) e mi gusto le melodie di Chris Hannah come un sedicenne entusiasta. Anzi, vi dirò di più, probabilmente quando avevo sedici anni era così che avrei voluto che fosse il metal: riff potentissimi, sfoggio sborone di tecnica alla batteria, velocità da capogiro, voce dura che canta melodie accattivanti. E invece no, questo è true melodic hardcore come lo si fa negli anni zero, ovvero eliminando le inutili parti ska degli anni '90 e complicandosi la vita con arrangiamenti sboroni e riff di precisione metallica. Oltre che, naturalmente, toccando temi socio-politici in modo assolutamente non banale nelle liriche. Un gran disco, da ascoltare ripetutamente per capire le diverse sfaccettature che stanno dietro a un primo impatto da erezione.
5. Fine Before You Came - s f o r t u n a
Label: Triste/La Tempesta/Ammagar
Secondo disco italiano nella mia pigra classifica (pigra perché nel ricercare musica alternativa mi affido troppo a canali che ormai nel microcosmo alternativo sono praticamente mainstream, e questi canali, ahimé, tagliano fuori il nostro paese con una bella passata di forbici lungo le alpi). Per giunta, disco milanese: i Fine Before You Came sono gente delle nostre parti. Ovviamente questo non avrebbe assolutamente niente a che fare con la loro musica, se non fosse che mi piace pensare che le atmosfere pesanti di questo disco siano state in parte influenzate dalle grigie e fosche giornate invernali che spopolano in questa zona per la felicità dei meteoropatici come me. Ho ascoltato molto s f o r t u n a durante le mie solitarie serate germaniche, alcune volte con tanto coinvolgimento da ritrovarmi con la gola serrata. Non conosco i ragazzi dei FBYC, ma penso di aver capito qualcosa del loro messaggio: ci vuole così poco a stare male, ed è così difficile poi risalire il buco in cui ci si va a infilare ogni volta, che la sfortuna sembra quasi il leitmotiv della nostra vita. Ma a scegliere siamo noi, è la nostra volontà a determinare il decorso degli eventi. Penso che parlare di sfortuna in Italia sia una delle cose più emo che si possano fare, e per questo i FBYC sono un gruppo emo, forse il migliore del nostro paese. Se invece dobbiamo basarci sulla musica, abbiamo tra le mani sette perle di rock alternativo a cui il prefisso post calza a pennello, liriche in italiano cantate in un modo che suona così diverso rispetto a quanto siamo abituati a sentire, furia emozionale e paesaggi sonori dilatati, una struttura mutuata dallo screamo che calza a pennello con il pathos presente ovunque nei testi e nelle melodie, canzoni ideali per affondare in una bolla di tristezza durante una fredda serata d'inverno. Scaricate s f o r t u n a gratuitamente dal sito dei Fine Before You Came: la musica italiana vi sembrerà ringiovanire come non avreste mai detto.
4. Sounds Like Violence - The Devil On Nobel Street
Label: Burning Heart
Ormai è chiaro: i Sounds Like Violence sono i messaggeri della fine del mondo. Io l'ho capito, e sono pronto ad ascoltare la loro voce e ad accettare il loro immaginario apocalittico. Con il loro primo EP del 2004, The Pistol, ci avevano mostrato una via all'indie rock che passava per il dopo-Refused e per l'emocore più disperato. Con il loro primo LP del 2006, With Blood On My Hands, ci avevano abbagliato con le loro canzoni perfette, incredibilmente immediate ma allo stesso tempo drammatiche e disturbate. Ora, nel 2009, i quattro svedesi confezionano un disco degno di essere la colonna sonora del diluvio universale. Ritmiche a tratti ballabili e a tratti spezzate, dal chiaro orientamento post-, armonizzazioni vocali da brivido e cori angelici (o demoniaci, come volete) che riempiono ogni momento come un'incessante pioggia di anime, chitarre che arpeggiano dolci melodie e si scontrano con la voce abrasiva di Andreas Soderlund, anch'essa in grado di alternare con sorprendente versatilità calore umano e urla di dolore; e poi un'attitudine al sing-along da festa della birra nel paese degli elfi che conferisce a questo prodotto un mood assolutamente europeo: se Fat Mike in Insulted by Germans diceva "Swede bands copy our sound", qui dovrà ricredersi. E' un peccato che, mentre band inglesi mediocri vengano idolatrate per la loro capacità di imitare lo stile del passato più fashion del momento, una band che sa rappresentare perfettamente il grottesco del nostro presente venga completamente ignorata. Forse è un buon segno. Io per sicurezza li terrò d'occhio: quando il cielo si riempirà di nuvole, e creature da mitologia nordica usciranno dai boschi per partecipare all'ultimo festival della storia, i Sounds Like Violence suoneranno sul main stage. L'apocalisse è una festa popolare.
3. Strike Anywhere - Iron Front
Label: Bridge Nine
Se avete letto il mio post entusiasta sull'hc melodico di qualche mese fa (e se non l'avete fatto fatelo, mica scrivo per i topi che rosicchiano i cavi della vostra adsl) saprete già cosa penso di Iron Front. Riassumendo, io credo che il rock del presente dovrebbe avere tutte le caratteristiche che questo disco ha: musica veloce, dinamica, accattivante, melodica, vitale, sovversiva, immediata, arrabbiata, tanto arrabbiata, così arrabbiata che se penso a Pino Scotto che fa il vero rocker de noartri dicendo cazzo-merda-fanculo su Rock Tv mi viene da ridere. Il punk non deve parlare solo di politica, tanto meno il rock, sono il primo a pensarlo. Però quando l'ascolto di un disco ti fa venire voglia di uscire e fare un gran casino, molti altri eccellenti esempi di musica opposizionale sembrano di colpo annacquati. Gli Strike Anywhere sono uno degli esempi più genuini di come si possa oggi fare un disco semplice (di certo più semplice di Supporting Caste, altro big dell'anno nel genere, e questo è il motivo per cui è più in alto nella classifica) che però ascolteresti di continuo: nulla di nuovo da scoprire, solo melodie spettacolari, ritmiche serrate e l'espressione di un'enorme potenza che deriva dalla rabbia e dalla frustrazione, sentimenti negativi che si trasformano qui in energia positiva purissima. L'orrore del nostro tempo raccontato senza mezzi termini. E quando nella bellissima parte finale di Postcards From Home, Thomas Barnett fa la migliore descrizione possibile dello stress post-traumatico a cui sono soggetti i ragazzi americani spediti in guerra senza troppi complimenti, il pugno in faccia arriva inevitabile: you can't walk away, this light will follow you, you can't walk away because you're so conditioned, you can't walk away, this land will follow you, you can't walk away 'cause this is home.
2. Brand New - Daisy
Label: Interscope
Due premesse: I Brand New non hanno mai fatto un disco brutto; The Devil and God Are Raging Inside Me (2006) è il disco più bello dei Brand New. Detto questo, è molto più semplice capire Daisy, capire l'impatto che ha avuto sui fan più o meno affiatati. Il disco che sta al secondo posto della classifica degli album più belli del 2009 è meno bello del precedente lavoro della stessa band. Sembrerà strano, ma vi ricrederete quando ascolterete Daisy nel modo giusto. Dopo aver scritto uno dei capolavori del dopo-emo, capace di rielaborare il rock alternativo con una personalità che hanno solo i nomi destinati a lasciare il segno, i Brand New se ne escono con un disco crudo, difficile, di certo l'opposto che una consacrazione al successo commerciale vorrebbe (stiamo parlando di un disco prodotto da una major, mica cazzi). Nel 2009 i demoni che Jesse Lacey e soci hanno deciso di combattere hanno una forma ormai diversa dal pop-punk delle origini, e di certo più oscura del rock introspettivo degli ultimi lavori. Daisy è un disco notturno come pochi altri, dove le atmosfere nebbiose degli arpeggi si scontrano con il rumore postindustriale delle chitarre distorte e di una batteria che più che tenere il tempo scandisce il passo dell'uomo che vaga nella città di notte. E se il noise strumentale non bastasse, la voce di Jesse conferisce ulteriore pathos all'atmosfera, esplodendo talvolta in urla di vera follia. Il tutto attraversato da una corrente di melodia impossibile da separare dal contesto, in puro stile Brand New. Procuratevi Daisy, ascoltatelo più volte, immergetevi nelle nebbie che dal New Jersey invaderanno la vostra camera. L'indubbia capacità di questa band di impregnare l'atmosfera con il loro odore, e di lasciare sempre e comunque dietro l'angolo una sorpresa pronta a sconvolgere tutto, vi farà amare questo disco. In attesa di vedere cosa succederà dopo.
1. Banner Pilot - Collapser
Label: Fat Wreck Chords
Eccoci alla numero uno: momentiibridi, tramite mia scelta assolutamente arbitraria, si prende la responsabilità di considerare disco più bello del 2009 Collapser dei Banner Pilot. Molti mi chiederanno di giustificare questa scelta. Del resto come si può far accettare la superiorità di un disco pop-punk a chi non è invasato dal genere come me o a chi non l'ha ancora sentito? Ci proverò in questi termini: chiudete gli occhi, e tornate con la memoria a quell'estate di tanti anni fa, quando eravate adolescenti, la scuola era finita e per tre mesi i pensieri erano le ragazze, gli amici e poco altro. Il futuro era un'entità astratta con un potenziale pressoché infinito, e in quei momenti in cui le cose andavano per il verso giusto ci si sentiva veramente al centro del mondo. Ora riaprite gli occhi, e prima che l'impatto con la dura realtà vi riporti alle angosce di tutti i giorni, pensate che nel disco dei Banner Pilot sono presenti tutti gli elementi necessari per rievocare alla memoria, o reinventare se necessario, ricordi di questo genere. Prima di tutto, la semplicità: in epoca di gruppi pop-punk che piazzano breakdown su breakdown, armonizzazioni vocali spudoratamente finte e scream fuor luogo, le canzoni di Collapser vanno via lisce, senza fronzoli, e ricordano che a suonare il punk rock in fondo non ci vuole niente. Questa semplicità è sinonimo di urgenza, ovvero il bisogno di mostrarsi subito per quello che si è, senza nascondersi dietro costruzioni modaiole. E questa urgenza rimanda immediatamente alla genuinità: what you see is what you get. I Banner Pilot sono limpidi, mostrano la loro musica per quello che è, seguendo in un certo senso la scuola dei Ramones. Ma attenzione: qui non ci sono vintagismi alla Teenage Bottlerocket: il sound di questo disco suona incredibilmente fresco, come a dire che la spontaneità non ha bisogno di citazioni. Ma allora dove si appoggia tutta la magnificenza che vi ho annunciato? Bé, la chiave sta nell'elemento che in questo decennio ha sputtanato il punk, l'hardcore e tutto ciò che segue: la melodia. Nel 2009 possiamo dirlo: la melodia ha rotto il cazzo. Ne abbiamo le palle piene di canzoni violentissime con ritornelli cantati da voci bianche tra uno stacco mosh e l'altro (e per il prossimo decennio è in arrivo il vocoder, quindi preparatevi al peggio), di band che si atteggiano da duri del quartiere e poi ci propinano tiritere che pure Mariah Carey troverebbe sdolcinate, di minorenni fighetti che si spacciano per loser kids ma poi finiscono a scrivere le peggio ballate da prom night, ne abbiamo le palle piene di tutte queste ruffianate che non hanno niente a che fare con il sano bisogno di esprimere il proprio disagio (di origine sociale o esistenziale che sia) ma hanno tanto a che fare con il mettere in mostra il proprio ego. La melodia in questo decennio (ma guardando bene ci saremmo accorti che il processo era già iniziato negli anni '90) ha fatto da cavallo di Troia per il mainstream nella musica alternativa adolescenziale bianca, che sia punk, hardcore o emo, e ha contribuito, assieme a un iperbolico interesse nei confronti dell'immagine, a trasformare un catalizzatore di frustrazioni nell'ennesimo giocattolo del mercato. Il risultato è che oggi il pubblico è completamente anestetizzato, ha bisogno di idee sempre più estreme per stupirsi, e le giovani band le provano tutte per farsi notare: vedi quei buffoni dei Brokencyde o gli esilaranti Attack Attack!. Ciò che all'inizio ci sembrava la novità (la melodia mista alla potenza dell'hardcore? wow, che figata questi Nofx!) oggi ci ha nauseati. La discriminante per essere dei veri alternativi passa sempre di più dal rifiuto del cantato melodico, e infatti oggi nelle serate punk-hardcore nei centri sociali abbondano gruppi che si definiscono old school e assomigliano più o meno tutti ai Comeback Kid, e a volte c'è qualche temerario che si butta nello screamo e nel post-rock strumentale. L'equilibrio pare essersi perso: come fare a non rinunciare a una componente così essenziale e trainante della musica pur senza tuffarsi in un barile di melassa? I Banner Pilot propongono la loro via: punk rock semplice, sobrio, immediato, intelligente. Chiamatelo orgcore o come vi pare, queste definizioni lasciano il tempo che trovano; per me si tratta di pop-punk allo stato puro, a cui non frega niente né di mostrarsi cazzo duro né di accalappiare le minorenni frangiate: le melodie in questo disco suonano finalmente sincere, non costruite per mettersi in mostra ma funzionali alla musica e ai contenuti che i quattro del Minnesota vogliono comunicare. Esattamente come avremmo voluto che fosse il punk quando eravamo adolescenti, e ancora l'innocenza non era stata rubata dalla consapevolezza del mondo reale. Questo è il motivo per cui alla numero uno c'è Collapser dei Banner Pilot. Di certo parecchi penseranno che questo disco non è niente di così esaltante - in realtà lo è, trust me - ma il suo valore è indiscutibile: in attesa di vedere le future evoluzioni della "scena" (attesa non certo priva di qualche brivido...), ecco a voi i titoli di coda di un decennio. Spero che mettano anche voi di buon umore, come hanno fatto con me.
PS. e se beccate la citazione del titolo del post vincete una foto del Suy nudo.
enjoy,
fede
20. Shook Ones - The Unquotable A.M.H.
Label: Paper and Plastick
Gli Shook Ones mi sono arrivati addosso nel 2009 come un ciclista accecato dal sole mentre cazzeggiavo sulla pista ciclabile. Nonostante il nome mi fosse noto non li avevo mai degnati di particolare attenzione fino a poco tempo fa, quando spinto dalla curiosità mi apprestai ad ascoltare il loro recente disco. E ne rimasi colpito. Hardcore melodico emozionale e fottutamente catchy: niente di nuovo direte voi, e ne sarete ancora più convinti quando sentirete la voce del cantante Scott Freeman, che ricorda in maniera impressionante quella dei vari Jason Shevchuk e Ari Katz, nomi influenti che tutt'ora arrizzano il pisello ad artisti ben più creativi. Però mentre lo starete pensando il vostro piedino sarà già partito, e la voglia di passare alla traccia dopo sarà già sparita come l'odore di un peto in una giornata ventosa. Niente da fare, sarà già sentito ma io lo trovo terribilmente end of the 2000s: dopo la sbornia di vino e miele che ha trasformato in questo decennio la melodia in un feticcio ormai privo di un qualsiasi valore aggiunto e la potenza del punk hardcore in una struttura preconfezionata replicabile all'infinito, The Unquotable A.M.H. è un ottimo esempio di cosa può essere la musica adolescenziale a fine decennio: citazionismo (più o meno moderato), personalità, velocità, melodia, urgenza. Senza bisogno di cagare fuori dalla tazza.
19. Manchester Orchestra - Mean Everything To Nothing
Label: Favorite Gentlemen/Canvasbac
Per apprezzare i Manchester Orchestra bisogna togliersi dalla testa questa storia secondo la quale tali giovanissimi bifolchi della Georgia sarebbero gli eredi dei Brand New. Uno, i Brand New non hanno bisogno di eredi, sono vivi e in ottima forma, e li incontreremo più avanti. Due, se vi portate a letto una ragazza spacciandovi per eredi di John Holmes, avrete un bel da fare per non deluderla. E probabilmente non ci riuscirete. Ora, una bella masturbazione mentale di gruppo sul perché codeste due band dovrebbero essere imparentate o meno sarebbe interessantissima per una serata invernale con stereo e fumo in abbondanza, ma ora vediamo di considerare il valore di Mean Everything To Nothing by itself: questo disco è il rock alternativo di fine decennio in una delle sue forme più pure e caratteristiche. Addentratevici se vi capita, magari durante un bel viaggio in macchina, e ci troverete tutto ciò che serve: post-grunge, power pop, rock radiofonico, rock progressivo, ritornelli cantabilissimi e momenti acustici più intimisti, individualismo ego-centrato, ossessione per la religione. Tutto ciò che è scaturito dalla produzione culturale di questo decennio ha lasciato un segno a modo suo nei suoni e nelle liriche di questi giovani figli dello zio Sam. Inoltre il cantante Andy Hull ha 23 anni ma sembra già un country-rocker consumato, con tanto di barba alla Gesù. Il prossimo decennio potremmo sentir parlare spesso di loro.
18. The Pains Of Being Pure At Heart - The Pains Of Being Pure At Heart
Label: Slumberland
Nel 2009 ho avuto il piacere di vedere New York. Non ricordo quando incominciai a provare la curiosità morbosa che ho sempre avuto per quella città, ma in questo strano 2009 mi sono finalmente tolto lo sfizio. E sticazzi, direte voi, mica ci devi raccontare le tue vacanze - anche perché se leggete momentiibridi vuol dire che siete amici miei, e quindi sapete già tutto. Ma niente paura, questo preludio condurrà ai TPOBPAH in modo tanto lineare quanto il vivere da soli conduce a pessime abitudini alimentari. Durante uno degli ultimi pomeriggi cittadini, mentre passeggiavo per Williamsburg, il quartiere coooool di Brooklyn dove i poser indie se la godono come bambini in un luna park, entrai in un negozio di dischi. No, non comprai il disco oggetto della recensione, non sarebbe una storia realistica trattandosi di me. Invece intascai una rivista gratuita chiamata The L Magazine. In prima pagina il titolo 8 NYC bands you need to hear - the 2009 edition. Gruppi interessanti, non c'è che dire. A Pagina 34 poi c'era la sezione "che fine hanno fatto quelli del 2008?" Bé, il nome che più mi incuriosì tra questi era The Pains Of Being Pure At Heart. Tornai a casa e scaricai allegramente. E ora eccoci qui: indie pop allegro, adatto a scaldare il cuore nonostante l'impronta decisamente shoegaze comunichi una freddezza metropolitana che ricorda le migliori serate invernali passate ascoltando i My Bloody Valentine. Canzonette, ma quando le giornate inizieranno ad allungarsi sarà un piacere gustarsi gli ultimi tramonti invernali tra le cime dei palazzi ascoltando questo disco.
17. The Dangerous Summer - Reach for the Sun
Label: Hopeless
Ok, probabilmente il fatto di includere questo disco tra i preferiti del 2009 farà abbassare la mia credibilità come critico di almeno un paio di migliaia di punti. Parliamone subito: i Dangerous Summer sono il classico gruppo rock da limone duro in spiaggia con il tramonto e le stelle e le onde e quelli che giocano a beach volley e tutto quello che ci volete mettere. Qui non c'è punk, hardcore, indie, rock alternativo. Ci sono una manciata di canzoni le cui melodie sono finalizzate a ricordare quei 3-4 mesi all'anno in cui per questioni meteorologiche l'umore migliora, il carattere si fa propositivo, il desiderio sale, e tutti ci improvvisiamo poeti mancati. Ecco, se vogliamo focalizzare la differenza tra i Dangerous Summer e altre decine di gruppi, specialmente pop-punk, specialmente americani, che ogni anno si imbarcano nell'impresa di scrivere la colonna sonora per lo spring break, dobbiamo prenderli per quello che sono: un gruppo rock, senza prefissi o suffissi, che per motivi propri ha deciso di mixare lo stile degli ultimi Starting Line (i migliori) con alcune atmosfere da summer hit a cui probabilmente sarebbero voluti arrivare i Goo Goo Dolls se solo quel belloccio del cantante avesse ricevuto un'ispirazione decente in vita sua. Pensate quello che volete su attitudine e ribellione nella musica, ma se almeno una volta nella vita avete avuto una ragazza del mare, ascoltare questo disco vi farà ripensare a lei. Anche se non vi ricordate più neanche com'era fatta. Musica epica per bianchi medio-borghesi.
16. The Bomb - Speed Is Everything
Label: No Idea
Questo disco è così soddisfacente che quando è finito, invece di ascoltare qualcos'altro, ti viene voglia di ascoltarlo da capo. E non è che sia così normale, oggigiorno. Di solito capita per gli album geniali o per quelli molto vari. In questo caso siamo di fronte a un album così vario da diventare geniale. Per dire, questi qui ti piazzano una di fianco all'altra una canzone punk greve e cazzona alla SNFU (Haver) e una ballatona mid-tempo indie rock con tanto di delay e coretti ruffiani che non sfigurerebbe sulla playlist di una serata MTV Brand New. E subito dopo un'altra song veloce e abrasiva come Integrity. E così via. Dovete ascoltarlo tutto questo disco, per capire che cacchio di genere fanno i The Bomb. E comunque non lo capirete. Canzoni punk melodiche e accattivanti, canzoni rock alternativo ispirate e ben arrangiate. Naturalmente in tutto ciò la voglia di andare oltre ai suoni tipici del punk che caratterizza molti dischi della No Idea è perfettamente rappresentata, solo espressa in modo più frammentato; tuttavia, questo è post-punk al 100%. E come con ogni definizione data per differenza, conosciamo il punto di partenza ma non quello di arrivo. Vedremo quale sarà il prossimo passo dei quattro di Chicago, nel frattempo gustiamoci questa perla di musica di fine decennio.
15. Frank Turner - Poetry Of The Deed
Label: Epitaph
Inizialmente non volevo mettere questo nuovo disco di Frank Turner nella classifica dei migliori dell'anno, per alcuni motivi: prima di tutto, considero il precedente Love, Ire and Song (2008) decisamente migliore, e quando l'aspettativa è così alta è facile rimanere delusi. Inoltre, e questo secondo punto è riconducibile al primo, il Frank Turner "chitarra e voce" ha un qualcosa in più che il Frank Turner "con la band" lascia inevitabilmente indietro. Non fraintendetemi, gli arrangiamenti strumentali di Poetry Of The Deed sono ottimi, e comunque i momenti acustici non mancano. Però l'immagine del vecchio (sticazzi, ha solo sei mesi in più di me) rocker inglese in piedi con l'acustica al collo e la fronte imperlata di sudore mentre sforza la voce per raggiungere la nota, è l'immagine perfetta del folk-singer figlio del punk rock che caratterizzerà il prossimo decennio, almeno all'inizio. E qui scatta il motivo per cui sarebbe stato ingiusto escludere questo disco da quelli più significativi dell'anno passato: il 2009, in un modo o nell'altro, è stato l'anno di Frank Turner. Lo è stato per me, che l'ho visto per la prima volta dal vivo in apertura ai Gaslight Anthem. Lo è stato per gli orgcore kids americani, per i quali apprezzare un artista proveniente da una terra fuori dell'impero dev'essere stato tanto strano quanto comprare un'auto russa. Lo è stato per la Epitaph, che accaparrandoselo ha alzato la scarsissima media delle sue più recenti produzioni (non esente da outliers, vedi qualche posizione sotto). Lo è stato per Frank Turner himself, che se la dev'essere sciallata mica male in tour praticamente per tutto l'anno. Detto questo, Poetry Of The Deed è un solido disco folk-rock cantautorale, con almeno un capolavoro di canzone (Try this at home) e diversi esempi di eccellente songwriting. Manca giusto l'urgenza dei primi lavori, ma questa frase è troppo da critico per essere stata scritta da me.
14. Bat For Lashes - Two Suns
Label: Parlophone
Ci ho messo un po' a capire questo disco dei Bat For Lashes. Mi fu regalato da una mia amica a settembre, subito prima che partissi per l'ignoto. E l'impressione durante i primi ascolti fu proprio questa: qualcosa di sconosciuto. Tuttavia, se all'inizio questo disco può sembrare estraniante, una volta familiarizzato con la voce dell'affascinante Natasha Khan (impresa difficile per me, abituato a urlacci mascolini, ma certamente più facile se in vita vostra avete apprezzato Kate Bush o Tori Amos) sarà dura non percepire la bellezza di questa opera. Indie-pop raffinato, dalle atmosfere a tratti orientaleggianti, dove piano e tastiere completano il lavoro della voce portante, la quale già da sola sarebbe comunque in grado di sedurre l'ascoltatore più spigoloso e di guidare il suo viaggio nell'ignoto. E una canzone, Daniel, che da sola vale il download di tutto l'album (non parlo di acquisto perché sarebbe ipocrita da parte mia). Da ascoltare sotto le stelle. Grazie Maria.
13. Polar Bear Club - Chasing Hamburg
Label: Bridge Nine
I Polar Bear Club sono un gruppo ciccione. Lo sono i loro riff di chitarra grassi e oleosi, lo sono le ritmiche lente e potenti come il passo di un brontosauro, lo è la voce del cantante Jimmy Stadt, che per quanto giovane e magro, nel suo ispirarsi a Chuck Ragan finisce per far venire in mente un camionista grosso e barbuto - o almeno così era come lo immaginavo io prima di averlo visto. Prendete See the wind, la prima e più potente canzone del disco: ritmica lenta e cadenzata, riff di chitarra che saltellano su note basse senza rinunciare a intelligenti arpeggi d'accompagnamento alle aperture, voce assolutamente ruvida e graffiante che sa essere melodica pur senza perdere la credibilità da duro. E alla fine ci piazzano pure un bel breakdown, per ricordarci che in fondo siamo a fine decennio e il post-hardcore è la tendenza del momento. Come inizio non c'è male. Da qui in poi prende il via un disco godibilissimo, potente e ricco di strizzate d'occhio melodiche, più accessibile dei precedenti lavori della band senza tuttavia rinunciare a una buona fattura compositiva, ad arrangiamenti accattivanti, e a quella vena emo-core che è forse il segno più chiaro del riferimento agli Hot Water Music che i quattro di Syracuse (ah, questi siciliani) hanno deciso di mantenere latente all'interno della loro musica. Assolutamente da avere se vi piace il punk-rock. Da non disdegnare se preferite altri generi: potreste scoprirvi a muovere la testa dopo dieci secondi dalla pressione del tasto play.
12. Converge - Axe To Fall
Label: Epitaph
Ho visto i Converge per la prima e unica volta in vita mia nel 2008, in una calda e appiccicosa nottata milanese. Naturalmente li conoscevo già da tempo: è ben difficile che i Converge passino inosservati a chiunque apprezzi un minimo la musica dura. Ma dopo aver visto un loro concerto, l'impressione che ebbi era che non avevo mai capito niente di loro fino a quel momento. Dopo aver visto Jacob Bannon vagare per il palco come un'anima tormentata che ha quasi paura di quello che sta facendo, e dopo averlo visto trasformarsi nella catarsi in persona, piegandosi in due e vomitando le sue angosce sul pubblico con una voce che ha di demoniaco, posso dire di capire molto meglio il senso della musica dei Converge. Ovvio, in Axe To Fall, come ulteriore esempio di capolavoro post-hardcore metallico dei giorni nostri, non c'è solo la suo voce: c'è anche il drumming veloce, serrato e implacabile a opera di Ben Koller, che in questa occasione pare anche più grindoso del solito, e naturalmente ci sono i riff storti di Kurt Ballou, una delle cose che bramo con più curiosità quando mi appresto ad ascoltare un nuovo disco dei bostoniani. Se siete tra quelli che fanno colazione ascoltando i Dillinger Escape Plan, probabilmente apprezzerete questo album come il precedente No Heroes (2006), tuttavia riconoscendogli l'impossibilità di superare il seminale Jane Doe (2001). Se non siete particolarmente avvezzi a questo genere musicale, che è tutto tranne che accessibile, preparatevi alla massima espressione musicale del malessere interiore. Fatelo vostro, cogliete il suo senso profondo, e la catarsi arriverà e sarà bellissima.
11. Daitro - Y
Label: Purepainsugar
Conosco i Daitro dai tempi di Laissez Vivre Les Squelettes (2005), e ricordo ancora quando, conoscendo il mio atteggiamento nei confronti della lingua francese e dello screamo, non mi sarei mai aspettato di diventare un loro estimatore. Evidentemente, siamo di fronte a un caso in cui l'unione delle parti è superiore alla loro semplice somma. Anche perché lo screamo francese si sta ormai delineando come sottogenere a sé stante, ulteriore conferma di come gli europei abbiano parecchio da dire, quando evitano di copiare dagli americani. In ogni caso, anche quest'anno i Daitro sono stati capaci di soddisfarmi: Y è un gran bel disco emocore, dove le urla sono funzionali al contesto, ma sanno cedere il passo quando necessario ad ampie cavalcate post-rock strumentali e addirittura a momenti in cui compare il cantato melodico (a differenza del precedente lavoro, dove lo scream era l'unica forma possibile). Il mood del disco comunque è proprio come lo volevo, ovvero alternanza di sound caotico e temporalesco e momenti più rilassati: dieci nuove perle di stream of consciousness emozionale da ascoltare in una giornata piovosa. Assolutamente imperdibile. Poi vabbé, a me 'ste intellettualate del tipo canzoni senza titoli (in questo caso titoli come part I, part II, ecc.) stanno un po' sulle palle. I titoli in francese avrebbero certo avuto un fascino maggiore.
10. Biffy Clyro - Only Revolutions
Label: 14th Floor
Il disco dei Biffy Clyro è uscito a novembre ma sarebbe dovuto uscire ad aprile. Poco male, mi accompagnerà nella primavera del 2010. Un disco power pop epico e non ruffiano, infarcito di melodie belle e semplici, arrangiamenti strumentali che sanno complicarsi nei momenti giusti senza comunque perdere l'immediatezza su cui si appoggia ogni canzone. Un disco che prende subito, ma che non stanca in fretta come molti altri. Mi verrebbe da definirlo power pop adulto: non il solito pastone ultra-melodico per teenegers, ma musica suonata da gente con le palle che più che sorprendere ragazzini imberbi vuole intrigare l'ascoltatore che è disposto a lasciarsi trasportare ovunque questi scozzesi abbiano in mente di andare. E non sarà un viaggio breve, comunque. Andate ad ascoltarvi il più recente singolo, nonché prima traccia del disco, The Captain, e ditemi se non vi è venuta voglia di sapere cosa c'è dopo. E comunque pochi cazzi: gli Europei sono più sobri degli Americani. Anche quando si mettono a fare un disco da house party come questo.
9. port-royal - Dying In Time
Label: n5MD/debruit&desilence/Sleeping Star/Isound Labels
Questo è il primo disco italiano nella mia classifica dei dischi migliori del 2009. E se conoscete i port-royal, penserete subito che non c'entra un cazzo né con buona parte di generi musicali di cui abbiamo parlato fino a ora, né con quelli che chi mi conosce sa essere i miei gusti musicali. Ma come si fa a ignorare un disco del genere, anche se non dovessi avere gli elementi necessari per capire questo tipo di musica? Sarebbe stato un errore non fare nemmeno uno sforzo per essere obiettivi, sarebbe stato come fare del male a me stesso rinunciare a questi settanta e passa minuti di tuffo in un mondo sonoro assolutamente affascinante. Mi sono lanciato, e sono felice di averlo fatto. Inoltre ho imparato qualcosa di nuovo: perché i port-royal sono effettivamente una delle migliori band che il nostro paese ha da offrire alla scena internazionale. Tecnicamente, ci muoviamo sui territori dell'elettronica ambient, qualcosa che inizialmente ricorda le atmosfere di un certo chill-out mediterraneo la cui più genuina espressione da me conosciuta sta nelle compilation del Café del Mar (per dire). Però c'è anche altro: qualcuno parla di Sigur Ros, qualcun altro di Mogwai. Due nomi che dicono post-rock, due facce di una ricerca sonora fatta di atmosfere rarefatte e sognatrici, lunghe suite al limite della musica classica, momenti epici. I port-royal sanno integrare alla grande questi elementi in una solida esperienza elettronica, senza rinunciare a un italico tocco di dance che affiora in più parti. Music to make love with.
8. Sophia - There Are No Goodbyes
Label: The Flower Shop Recordings/City Slang/Bang!
I Sophia sono un gruppo Inglese composto essenzialmente da due parti: il cantautore Robin Proper-Sheppard, che si può definire a tutti gli effetti il fulcro compositivo attorno a cui ruota la musica della band, e il cosiddetto Sophia Collective, ovvero un gruppo dalla composizione e dimensione variabile di musicisti volenterosi che collaborano con lui nel produrre dischi che mi sentirei di classificare come indie-rock solamente perché non saprei come altro descriverli. In sostanza, siamo di fronte a dieci canzoni tranquille e malinconiche, perfette per quei momenti dell'anno/della vita in cui per un motivo o per un altro si tirano le somme: se la vostra vita fosse un film, probabilmente in quella parte in cui siete seduti sul portico e guardate un punto indefinito dell'orizzonte ci sarebbe una canzone di questo disco come colonna sonora. Un altro modo per descriverlo è intimo: nessuna epica narrativa, solo il momento in cui si condivide tutto e lo si fa faccia a faccia. Questo strano 2009 ha portato momenti belli e meno belli per ciascuno, e ripercorrerli ascoltando il disco dei Sophia è un buon modo per cullare i nostri ricordi prendendo la regia della nostra stessa vita, e vederli sfumare con sincera nostalgia. Naturalmente non c'è niente di concitato e caotico qui: solo un dolce slowcore sussurrato e riverberato, con archi e piano a impreziosire l'atmosfera e una voce femminile che a volte compare ad aggiungere ulteriore leggerezza. Music to fall asleep with.
7. Chuck Ragan - Gold Country
Label: SideOneDummy
Il cantante di un influente gruppo punk-rock-emo-core scioltosi e recentemente riformatosi, che attualmente attira consensi sia da parte di trentenni nostalgici che di neo-maggiorenni che si comportano come se fossero fan di vecchia data, ha fatto uscire un nuovo disco country-acoustic da solista. No, non sto parlando di Matt Pryor, anche se aspetto con ansia un nuovo disco dei New Amsterdams (magari migliore dell'ultimo). Lo stile cantautorale di Chuck Ragan è piuttosto (e ovviamente, direte voi) legato a quello che erano gli Hot Water Music: il punk è ben presente negli energici riff di chitarra e nella voce graffiante che è diventata un marchio di fabbrica imitatissimo, impossibile da ignorare nel 2009. E nonostante la veste acoustic-folk alleggerisca i toni, l'up-tempo rimane comunque la regola; quando questa viene infranta, ci troviamo di fronte a ulteriori perle di cantautorato sincero, americanissimo, che richiama alle atmosfere rurali a cui il genere ci ha abituato, senza forzare troppo la mano. Ogni singola traccia di Gold Country varrebbe da sola la presenza nella colonna sonora della vostra vita. Il vecchio Chuck è un uomo di mondo, e lo sa. Per questo troverete qui dentro momenti adatti per ogni stato d'animo, a volte ben separati, a volte uniti in un susseguirsi di episodi che solo le grandi storie sanno offrire. Ascoltate questo disco quando partite per un lungo viaggio, vi porterà fortuna e saggezza.
6. Propagandhi - Supporting Caste
Label: Smalltown/Hassle/Rude
Il disco dei Propagandhi è una figata assoluta. Ci sono varie scuole di pensiero riguardo ai canadesi, c'è chi dice che erano meglio prima quando facevano hardcore melodico di scuola anni '90, molto più classico e meno metalloso (ma pur sempre avanti), e c'è chi invece si eiacula in mano ogni volta che esce un loro nuovo disco, a volte ancor prima di averlo ascoltato. Io personalmente metto le metallarate in secondo piano (anche se parecchi momenti sono fottutamente esaltanti) e mi gusto le melodie di Chris Hannah come un sedicenne entusiasta. Anzi, vi dirò di più, probabilmente quando avevo sedici anni era così che avrei voluto che fosse il metal: riff potentissimi, sfoggio sborone di tecnica alla batteria, velocità da capogiro, voce dura che canta melodie accattivanti. E invece no, questo è true melodic hardcore come lo si fa negli anni zero, ovvero eliminando le inutili parti ska degli anni '90 e complicandosi la vita con arrangiamenti sboroni e riff di precisione metallica. Oltre che, naturalmente, toccando temi socio-politici in modo assolutamente non banale nelle liriche. Un gran disco, da ascoltare ripetutamente per capire le diverse sfaccettature che stanno dietro a un primo impatto da erezione.
5. Fine Before You Came - s f o r t u n a
Label: Triste/La Tempesta/Ammagar
Secondo disco italiano nella mia pigra classifica (pigra perché nel ricercare musica alternativa mi affido troppo a canali che ormai nel microcosmo alternativo sono praticamente mainstream, e questi canali, ahimé, tagliano fuori il nostro paese con una bella passata di forbici lungo le alpi). Per giunta, disco milanese: i Fine Before You Came sono gente delle nostre parti. Ovviamente questo non avrebbe assolutamente niente a che fare con la loro musica, se non fosse che mi piace pensare che le atmosfere pesanti di questo disco siano state in parte influenzate dalle grigie e fosche giornate invernali che spopolano in questa zona per la felicità dei meteoropatici come me. Ho ascoltato molto s f o r t u n a durante le mie solitarie serate germaniche, alcune volte con tanto coinvolgimento da ritrovarmi con la gola serrata. Non conosco i ragazzi dei FBYC, ma penso di aver capito qualcosa del loro messaggio: ci vuole così poco a stare male, ed è così difficile poi risalire il buco in cui ci si va a infilare ogni volta, che la sfortuna sembra quasi il leitmotiv della nostra vita. Ma a scegliere siamo noi, è la nostra volontà a determinare il decorso degli eventi. Penso che parlare di sfortuna in Italia sia una delle cose più emo che si possano fare, e per questo i FBYC sono un gruppo emo, forse il migliore del nostro paese. Se invece dobbiamo basarci sulla musica, abbiamo tra le mani sette perle di rock alternativo a cui il prefisso post calza a pennello, liriche in italiano cantate in un modo che suona così diverso rispetto a quanto siamo abituati a sentire, furia emozionale e paesaggi sonori dilatati, una struttura mutuata dallo screamo che calza a pennello con il pathos presente ovunque nei testi e nelle melodie, canzoni ideali per affondare in una bolla di tristezza durante una fredda serata d'inverno. Scaricate s f o r t u n a gratuitamente dal sito dei Fine Before You Came: la musica italiana vi sembrerà ringiovanire come non avreste mai detto.
4. Sounds Like Violence - The Devil On Nobel Street
Label: Burning Heart
Ormai è chiaro: i Sounds Like Violence sono i messaggeri della fine del mondo. Io l'ho capito, e sono pronto ad ascoltare la loro voce e ad accettare il loro immaginario apocalittico. Con il loro primo EP del 2004, The Pistol, ci avevano mostrato una via all'indie rock che passava per il dopo-Refused e per l'emocore più disperato. Con il loro primo LP del 2006, With Blood On My Hands, ci avevano abbagliato con le loro canzoni perfette, incredibilmente immediate ma allo stesso tempo drammatiche e disturbate. Ora, nel 2009, i quattro svedesi confezionano un disco degno di essere la colonna sonora del diluvio universale. Ritmiche a tratti ballabili e a tratti spezzate, dal chiaro orientamento post-, armonizzazioni vocali da brivido e cori angelici (o demoniaci, come volete) che riempiono ogni momento come un'incessante pioggia di anime, chitarre che arpeggiano dolci melodie e si scontrano con la voce abrasiva di Andreas Soderlund, anch'essa in grado di alternare con sorprendente versatilità calore umano e urla di dolore; e poi un'attitudine al sing-along da festa della birra nel paese degli elfi che conferisce a questo prodotto un mood assolutamente europeo: se Fat Mike in Insulted by Germans diceva "Swede bands copy our sound", qui dovrà ricredersi. E' un peccato che, mentre band inglesi mediocri vengano idolatrate per la loro capacità di imitare lo stile del passato più fashion del momento, una band che sa rappresentare perfettamente il grottesco del nostro presente venga completamente ignorata. Forse è un buon segno. Io per sicurezza li terrò d'occhio: quando il cielo si riempirà di nuvole, e creature da mitologia nordica usciranno dai boschi per partecipare all'ultimo festival della storia, i Sounds Like Violence suoneranno sul main stage. L'apocalisse è una festa popolare.
3. Strike Anywhere - Iron Front
Label: Bridge Nine
Se avete letto il mio post entusiasta sull'hc melodico di qualche mese fa (e se non l'avete fatto fatelo, mica scrivo per i topi che rosicchiano i cavi della vostra adsl) saprete già cosa penso di Iron Front. Riassumendo, io credo che il rock del presente dovrebbe avere tutte le caratteristiche che questo disco ha: musica veloce, dinamica, accattivante, melodica, vitale, sovversiva, immediata, arrabbiata, tanto arrabbiata, così arrabbiata che se penso a Pino Scotto che fa il vero rocker de noartri dicendo cazzo-merda-fanculo su Rock Tv mi viene da ridere. Il punk non deve parlare solo di politica, tanto meno il rock, sono il primo a pensarlo. Però quando l'ascolto di un disco ti fa venire voglia di uscire e fare un gran casino, molti altri eccellenti esempi di musica opposizionale sembrano di colpo annacquati. Gli Strike Anywhere sono uno degli esempi più genuini di come si possa oggi fare un disco semplice (di certo più semplice di Supporting Caste, altro big dell'anno nel genere, e questo è il motivo per cui è più in alto nella classifica) che però ascolteresti di continuo: nulla di nuovo da scoprire, solo melodie spettacolari, ritmiche serrate e l'espressione di un'enorme potenza che deriva dalla rabbia e dalla frustrazione, sentimenti negativi che si trasformano qui in energia positiva purissima. L'orrore del nostro tempo raccontato senza mezzi termini. E quando nella bellissima parte finale di Postcards From Home, Thomas Barnett fa la migliore descrizione possibile dello stress post-traumatico a cui sono soggetti i ragazzi americani spediti in guerra senza troppi complimenti, il pugno in faccia arriva inevitabile: you can't walk away, this light will follow you, you can't walk away because you're so conditioned, you can't walk away, this land will follow you, you can't walk away 'cause this is home.
2. Brand New - Daisy
Label: Interscope
Due premesse: I Brand New non hanno mai fatto un disco brutto; The Devil and God Are Raging Inside Me (2006) è il disco più bello dei Brand New. Detto questo, è molto più semplice capire Daisy, capire l'impatto che ha avuto sui fan più o meno affiatati. Il disco che sta al secondo posto della classifica degli album più belli del 2009 è meno bello del precedente lavoro della stessa band. Sembrerà strano, ma vi ricrederete quando ascolterete Daisy nel modo giusto. Dopo aver scritto uno dei capolavori del dopo-emo, capace di rielaborare il rock alternativo con una personalità che hanno solo i nomi destinati a lasciare il segno, i Brand New se ne escono con un disco crudo, difficile, di certo l'opposto che una consacrazione al successo commerciale vorrebbe (stiamo parlando di un disco prodotto da una major, mica cazzi). Nel 2009 i demoni che Jesse Lacey e soci hanno deciso di combattere hanno una forma ormai diversa dal pop-punk delle origini, e di certo più oscura del rock introspettivo degli ultimi lavori. Daisy è un disco notturno come pochi altri, dove le atmosfere nebbiose degli arpeggi si scontrano con il rumore postindustriale delle chitarre distorte e di una batteria che più che tenere il tempo scandisce il passo dell'uomo che vaga nella città di notte. E se il noise strumentale non bastasse, la voce di Jesse conferisce ulteriore pathos all'atmosfera, esplodendo talvolta in urla di vera follia. Il tutto attraversato da una corrente di melodia impossibile da separare dal contesto, in puro stile Brand New. Procuratevi Daisy, ascoltatelo più volte, immergetevi nelle nebbie che dal New Jersey invaderanno la vostra camera. L'indubbia capacità di questa band di impregnare l'atmosfera con il loro odore, e di lasciare sempre e comunque dietro l'angolo una sorpresa pronta a sconvolgere tutto, vi farà amare questo disco. In attesa di vedere cosa succederà dopo.
1. Banner Pilot - Collapser
Label: Fat Wreck Chords
Eccoci alla numero uno: momentiibridi, tramite mia scelta assolutamente arbitraria, si prende la responsabilità di considerare disco più bello del 2009 Collapser dei Banner Pilot. Molti mi chiederanno di giustificare questa scelta. Del resto come si può far accettare la superiorità di un disco pop-punk a chi non è invasato dal genere come me o a chi non l'ha ancora sentito? Ci proverò in questi termini: chiudete gli occhi, e tornate con la memoria a quell'estate di tanti anni fa, quando eravate adolescenti, la scuola era finita e per tre mesi i pensieri erano le ragazze, gli amici e poco altro. Il futuro era un'entità astratta con un potenziale pressoché infinito, e in quei momenti in cui le cose andavano per il verso giusto ci si sentiva veramente al centro del mondo. Ora riaprite gli occhi, e prima che l'impatto con la dura realtà vi riporti alle angosce di tutti i giorni, pensate che nel disco dei Banner Pilot sono presenti tutti gli elementi necessari per rievocare alla memoria, o reinventare se necessario, ricordi di questo genere. Prima di tutto, la semplicità: in epoca di gruppi pop-punk che piazzano breakdown su breakdown, armonizzazioni vocali spudoratamente finte e scream fuor luogo, le canzoni di Collapser vanno via lisce, senza fronzoli, e ricordano che a suonare il punk rock in fondo non ci vuole niente. Questa semplicità è sinonimo di urgenza, ovvero il bisogno di mostrarsi subito per quello che si è, senza nascondersi dietro costruzioni modaiole. E questa urgenza rimanda immediatamente alla genuinità: what you see is what you get. I Banner Pilot sono limpidi, mostrano la loro musica per quello che è, seguendo in un certo senso la scuola dei Ramones. Ma attenzione: qui non ci sono vintagismi alla Teenage Bottlerocket: il sound di questo disco suona incredibilmente fresco, come a dire che la spontaneità non ha bisogno di citazioni. Ma allora dove si appoggia tutta la magnificenza che vi ho annunciato? Bé, la chiave sta nell'elemento che in questo decennio ha sputtanato il punk, l'hardcore e tutto ciò che segue: la melodia. Nel 2009 possiamo dirlo: la melodia ha rotto il cazzo. Ne abbiamo le palle piene di canzoni violentissime con ritornelli cantati da voci bianche tra uno stacco mosh e l'altro (e per il prossimo decennio è in arrivo il vocoder, quindi preparatevi al peggio), di band che si atteggiano da duri del quartiere e poi ci propinano tiritere che pure Mariah Carey troverebbe sdolcinate, di minorenni fighetti che si spacciano per loser kids ma poi finiscono a scrivere le peggio ballate da prom night, ne abbiamo le palle piene di tutte queste ruffianate che non hanno niente a che fare con il sano bisogno di esprimere il proprio disagio (di origine sociale o esistenziale che sia) ma hanno tanto a che fare con il mettere in mostra il proprio ego. La melodia in questo decennio (ma guardando bene ci saremmo accorti che il processo era già iniziato negli anni '90) ha fatto da cavallo di Troia per il mainstream nella musica alternativa adolescenziale bianca, che sia punk, hardcore o emo, e ha contribuito, assieme a un iperbolico interesse nei confronti dell'immagine, a trasformare un catalizzatore di frustrazioni nell'ennesimo giocattolo del mercato. Il risultato è che oggi il pubblico è completamente anestetizzato, ha bisogno di idee sempre più estreme per stupirsi, e le giovani band le provano tutte per farsi notare: vedi quei buffoni dei Brokencyde o gli esilaranti Attack Attack!. Ciò che all'inizio ci sembrava la novità (la melodia mista alla potenza dell'hardcore? wow, che figata questi Nofx!) oggi ci ha nauseati. La discriminante per essere dei veri alternativi passa sempre di più dal rifiuto del cantato melodico, e infatti oggi nelle serate punk-hardcore nei centri sociali abbondano gruppi che si definiscono old school e assomigliano più o meno tutti ai Comeback Kid, e a volte c'è qualche temerario che si butta nello screamo e nel post-rock strumentale. L'equilibrio pare essersi perso: come fare a non rinunciare a una componente così essenziale e trainante della musica pur senza tuffarsi in un barile di melassa? I Banner Pilot propongono la loro via: punk rock semplice, sobrio, immediato, intelligente. Chiamatelo orgcore o come vi pare, queste definizioni lasciano il tempo che trovano; per me si tratta di pop-punk allo stato puro, a cui non frega niente né di mostrarsi cazzo duro né di accalappiare le minorenni frangiate: le melodie in questo disco suonano finalmente sincere, non costruite per mettersi in mostra ma funzionali alla musica e ai contenuti che i quattro del Minnesota vogliono comunicare. Esattamente come avremmo voluto che fosse il punk quando eravamo adolescenti, e ancora l'innocenza non era stata rubata dalla consapevolezza del mondo reale. Questo è il motivo per cui alla numero uno c'è Collapser dei Banner Pilot. Di certo parecchi penseranno che questo disco non è niente di così esaltante - in realtà lo è, trust me - ma il suo valore è indiscutibile: in attesa di vedere le future evoluzioni della "scena" (attesa non certo priva di qualche brivido...), ecco a voi i titoli di coda di un decennio. Spero che mettano anche voi di buon umore, come hanno fatto con me.
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